A noi eurocentrici l'americano Elliott Carter ha molto da insegnare con la sua lunga storia. È stato in ogni epoca un osservatore attento e sensibile: da quello straordinario crogiolo che era la New York degli anni Venti, con le sue passioni esoteriche per Skrjabin o i surrealisti, con l'accademismo più serioso o la più incredibile mescolanza di idealismo e realismo nella persona di Charles Ives, Carter è uscito per trasferirsi a Parigi all'inizio del decennio successivo.
Non erano più "les années folles" degli "Americani a Parigi", ma le stagioni severe e perfino un po' cupe del neoclassicismo. Da un lato la scuola di Nadia Boulanger e l'immagine grandiosa di Stravinsky, e più a distanza, su uno sfondo osservato con penetrante inquietudine, la Germania, in cui i fermenti dell'espressionismo si stavano decomponendo per generare una miscela esplosiva. Carter ha vissuto e osservato tutto questo, per tornare poi nel suo paese più deciso che mai a conquistare la propria originalità di musicista.
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